Carcere,inclusione e lavoro: Gomito a Gomito, vita OLTRE le sbarre!
Sta terminando marzo, inizia la primavera, un periodo di risveglio, voglia di uscire, divertirsi, per tanti di noi, ma non per tutti! Imagine, come ben sapete, tratta da sempre temi sociali, ed oggi per la prima volta ho intenzione di parlare del sistema carcere italiano e il reinserimento in società del detenuto.
Credo sia inutile sottolineare che in prigione si va perchè in realtà si è commesso un reato ( e spesse volte neanche, visti i tanti casi di detenuti innocenti ), l’obiettivo principale di questa mia puntata è quello di andare OLTRE, andando a scrutare a fondo sulla figura del detenuto e dell’idea che noi tutti ce ne facciamo durante e dopo lo sconto della sua pena. Si, è innegabile che nel momento in cui una persona viene accusata ( giustamente o ingiustamente ) e trasferita in carcere, viene automaticamente bollata, etichettata da tutti, allontanata come una sorta di peste bubbonica. Ma abbiamo mai pensato o almeno cercato di immaginare ad una possibile “redenzione” del detenuto? Beh, a conti fatti direi proprio di no. Io sono di Napoli, parlo della situazione ad esempio delle donne, nel carcere di Pozzuoli: ebbene, almeno qui, le donne sono molto meno numerose degli uomini (circa il 4% della popolazione carceraria) e per questo i loro problemi sembrano meno urgenti, meno drammatici, e rischiano di ricevere meno attenzione.
Tra stereotipi e discriminazioni, cosa subiscono le detenute italiane? Il parlare di carceri femminili porta con sé l'esigenza di affrontare svariati temi collegati: i bambini, ad esempio, che devono crescere o senza la figura materna o anch'essi dietro le sbarre. Senza dimenticare poi gli abusi, le violenze e il sessismo che le detenute devono sopportare ogni giorno. Per non parlare di problematiche tutte femminili nelle carceri italiane come quella che riguarda l'igiene: soprattutto nel periodo delle mestruazioni le donne hanno una maggiore necessità di pulizia personale ma molte carceri non offrono neppure il bidet alle detenute e, spesso, nemmeno la possibilità di una doccia calda. A questo proposito va poi detto che l'amenorrea, ovvero l'assenza di mestruo, è uno dei primi sintomi delle detenute. A queste difficoltà pratiche si aggiungono, come spesso accade quando si parla di donne, problemi culturali legati a stereotipi diffusi da tempo. Esiste ancora quel modo di pensare, quella bolla per cui una donna detenuta è paragonata ad una prostituta, una cattiva madre e moglie che deve restare in carcere per essere "rieducata" ai ruoli legati alla famiglia. Stupri e violenze sessuali poi non mancano, sia in Italia che nel resto del mondo. Inutile negare l’evidenza di un aspetto aberrante del falso buonismo della società: siamo tutti bravi, sempre, o almeno fino a quando non pecchiamo! Nel momento in cui una persona sbaglia, per un motivo o un altro, diventiamo improvvisamente tutti giudici, tutti pronti a giudicare, e ad etichettare chi ha errato! I pregiudizi, come spesso dico, e in ultimo la settimana scorsa, sono il vero cancro della società, il motivo per cui proprio non riesce ad evolvere! In prigione sono sempre e comunque chiuse delle persone, non alieni mostruosi. Non esistono categorie di detenuti, in carcere ci sono solo persone che hanno commesso un reato, persone ciascuna con una propria storia, ciascuna con le proprie esperienze, ciascuna con le proprie tendenze, ciascuna con le proprie attitudini, le proprie speranze, i propri timori, ogni persona è un caso a sé. È poi possibile che la convivenza, la prossimità e la promiscuità forzata possano amplificare l’emarginazione e la discriminazione: i delinquenti abituali, gli stranieri, i senza fissa dimora, i tossicodipendenti costituiscono infatti la maggior parte dei detenuti, ed è probabile che su di loro siano concentrati forti pregiudizi, o che essi stessi abbiano pregiudizi verso altri gruppi sociali. Aggressioni, sopraffazioni, violenze, suicidi e omicidi in carcere possono essere influenzati dal pregiudizio e dal conseguente stigma sociale.
Nel nostro ordinamento penale, per espressa previsione Costituzionale, la pena deve tendere alla rieducazione del reo, favorendo il suo reinserimento nella società. La funzione rieducativa della pena, trova il suo riconoscimento nel 3° comma dell'articolo 27 della Costituzione, il quale sancisce che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.
Tutto ciò è sulla carta, e va bene, ma, domanda da un milione di dollari, nella pratica? Vorrei ricordare che la pena non può guardare al passato ma deve volgere lo sguardo al futuro dello stesso detenuto al fine di farlo reinserire in società! Riflettiamo per un attimo, poniamo un caso di un condannato a 20 anni di reclusione: 20 anni rappresentano una vita, il mondo va avanti, il detenuto però non vi partecipa e quindi, una volta uscito, già si trova con un grande handicap da colmare, stare al passo con i tempi, modi, tecnologie, e progressi sotto tutti i punti di vista, compreso quello lavorativo! Già, il lavoro, settore di fortissima discriminazione. Certo, per un azienda è difficile prendere in considerazione un curriculum lì dove tra le “esperienze” trova la voce “carcere” ma se almeno non si prova a superare certe barriere come può mai inserirsi nuovamente nella società un ex detenuto? Non trovando lavoro? Ci rendiamo conto, pongo come esempio chi ha scontato una pena per furto, che non dandogli una chance lo stiamo rimettendo nella bocca del lupo? Credo sia umano che poi la tentazione di ritornare in errori passati venga! Quanto è efficace nello svolgere la sua missione di “rieducazione del condannato” (oggi diremmo “reinserimento nella società”)? Osservando il tasso di recidiva nel nostro Paese, sembra che il sistema penitenziario non raggiunga questo obiettivo.
Rieducazione significa che, nel periodo che si passa in una struttura penitenziaria, il tempo deve essere impiegato in attività che permettano alle persone detenute di sentirsi in qualche modo utili alla società da cui sono estraniati e alla quale hanno creato dei “danni”. Rieducazione significa dare una nuova vera possibilità a chi ha già “consumato” la prima. Ma come si fa? Con l’istruzione, con attività culturali o sportive, con il lavoro. Molte sono le cooperative che entrano in carcere, attive in progetti e iniziative diverse a seconda dell’area geografica e delle tradizioni locali. Ce ne sono alcune che lavorano nel settore alimentare, in quello agricolo, nella riparazione di alcuni strumenti di uso quotidiano come macchine da caffè, nella produzione di oggetti di pubblica utilità come le lampade per l’illuminazione stradale … Insomma ce n’è per tutti i settori. Oggi voglio parlarvi di un’Associazione in particolare, Gomito a Gomito, che opera a Bologna. Gomito a Gomito è il laboratorio sartoriale della Casa Circondariale di Bologna, aperto nel 2010 dalla Cooperativa Sociale Siamo Qua, e da oltre dieci anni dà opportunità di formazione, lavoro e reinserimento sociale alle persone detenute nel carcere bolognese.
Perché Gomito a Gomito? Il nome dice tante cose, oltre alla dislocazione geografica: il carcere bolognese si trova in via del Gomito, e a stretto giro di gomito è la modalità con la quale collabora chi è dentro e chi è fuori.
Il dato oggettivo più importante è che le persone rinchiuse in carcere, prima o poi, tornano in libertà, prima o poi rientrano nella società civile e, se li si tratta come animali, il rischio è che rientrino peggiorate e non rieducate.
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